Famiglia

E l’Italia va. Viaggio nel Paese di mezzo

E' il Paese rimasto senza rappresentanza. Dimenticato da chi scrive sui giornali. E anche da chi si mobilita nelle piazze (di Aldo Bonomi).

di Redazione

Tira aria brutta per chi fa di mestiere il ricercatore sociale. Se dici che tutto va male e che c?è la crisi dei ceti medi e l?impoverimento, sei di centrosinistra; se dici che tutto va bene e parli di neoborghesia, sei di centrodestra. Ne sa qualcosa il mio maestro Giuseppe De Rita che fino a quando denunciava che il Paese aveva “le ruote sgonfie”, valanghe di articoli; se poi ragiona di “borghizzazione” e in un?intervista dice che forse ce la faremo, viene subito bacchettato da Giulio Sapelli come un visionario che vuol scambiare il Barolo e il tartufo delle Langhe come il nuovo ciclo produttivo che rimpiazza la Fiat. è possibile sottrarsi a questo gioco al massacro che ha l?intenzione di durare ben oltre le elezioni europee, visto che ci aspettano 800 giorni di campagne elettorali giocate tra lo scenario Argentina – si è sentito evocare anche questo – e il Paese di Bengodi? Interrogativo che vale sia per chi fa ricerca che per chi fa giornalismo, insomma per tutti quelli che lavorano comunicando, nella testa del sistema Paese. Qui ci si confronta tra declino e successo. Poi c?è la parte nobile che sono i piedi che permettono di fare esodo, che manifestano per la pace e per le pensioni. Ma a me interessa fare racconto dei tanti e tanti soggetti che stanno in mezzo. L?Italietta che sta in mezzo fatta dai tanti che se la sfangano per vivere e per produrre: è come se questa terra di mezzo avesse come destino di essere raccontata solo da un primo popolo che scrive sui giornali e di essere rappresentata da chi si mobilita nelle piazze. La grande questione del secondo popolo La grande questione, che spero divenga anche questione elettorale, è se abbiamo una idea di futuro per il secondo popolo: proprio per quelli che stanno in mezzo visto che la testa e i piedi del Paese paiono avere le loro inossidabili certezze. E un?idea di sviluppo economico e di coesione sociale appare sempre più necessaria essendo ormai entrati in crisi, con tanto di eventi traumatici ed emblematici, i precedenti modelli di sviluppo e di società conseguente ove si sono confrontate le ideologie del secolo appena passato. Si diceva che quello che andava bene alla Fiat andava bene per il Paese o si osservava il battito di ali della classe operaia a Mirafiori per capire il tempo dell?autunno. E la crisi Fiat nella globalizzazione è l?evento che ci lascia orfani del modello della grande impresa. A questa abbiamo risposto scavando nel sommerso, nel capitalismo molecolare fatto di filiere artigiane e di piccole imprese che facevano condensa nei distretti, modelli di comunità economica ove tutto si teneva. La prospettiva del pauperista militante… Adesso i capitalisti molecolari hanno paura dei cinesi che copiano e lavorano selvaggiamente animati da quello spirito ?dell?animale imprenditore? che come sempre caratterizza le fasi aurorali del capitalismo. E i distretti sono diventati oggetto di tesi nelle università ma non sono più certezza di un modello produttivo di capitalismo popolare che tiene nella globalizzazione. I più sofisticati tra noi ricercatori ci ricordavano che tra i grandi in crisi e i piccoli impauriti si poteva avere memoria del capitalismo di comunità olivettiano che nel Canavese aveva realizzato una grande impresa innovativa sia nel prodotto che nel management affondando le sue radici nel tessuto operoso della comunità locale beneficiata a sua volta nei trasporti, nelle biblioteche e nelle case per gli operai da questo capitalismo dal volto umano. E che cosa era il modello Tanzi-Parmalat se non un capitalismo di comunità con i suoi produttori di latte e i suoi autotrasportatori, la sua squadra di calcio prima che si scoprisse traumaticamente che aveva portato un buon pezzo della via Emilia non da Collecchio al mondo e ritorno, ma alle isole Cayman della ?finanza creativa? ove non c?è ritorno? Da qui, da questo evento traumatico, l?apparire di un?altra grande faglia, già segnata dal passaggio per milioni di persone dall?essere popolo dei Bot garantiti dallo Stato a parco buoi della Borsa luccicante di lustrini della new economy: quello del rapporto tra risparmiatori, imprese e sistema bancario. Un sistema bancario che aveva appena finito al suo interno il risiko dei comprati e venduti per diventare grande e che si regge su equilibri proprietari determinati dalle fondazioni bancarie appena uscite da un durissimo scontro istituzionale con il duo Bossi-Tremonti e le Regioni davanti alla Consulta. Ce n?è abbastanza senza evocare l?euro, né il Mezzogiorno che ancora tiene, anche perché si usano i fondi europei a tutto tondo sino a quando l?allargamento dell?Unione non scoprirà altre priorità e altre aree in deficit di sviluppo. Ce n?è abbastanza per iscrivere anche me d?ufficio ai pauperisti militanti e alle cassandre che da tempo dicono che non ce la faremo senza imprese, ricerca, banche in grado di accompagnarci nella globalizzazione. … e la prospettiva del critico sociale Ma penso che compito del critico sociale e del ricercatore sia quello, come mi ha insegnato De Rita, di continuare a cercare per continuare a capire. E a me pare che una idea di uscita sia già in atto nei comportamenti sociali ed economici del sistema Paese. Quel po? di grande impresa pubblica e privata, i tanti distretti animati dal capitalismo molecolare, il capitalismo di comunità, la modernizzazione del sistema bancario e tanti anni di interventi nel Mezzogiorno non sono passati invano. Se ne notano tracce in quelle che io chiamo in sociologhese ?geocomunità?: il geo sta per la nuova geografia dei luoghi ridisegnata nella globalizzazione dal rapporto tra flussi globali e il vivere e il produrre locale ove si distende e assume altro significato la parola pesante comunità che rimanda al paese, alle cento città e alle tante comunità economiche dei distretti. Qui le comunità locali e produttive si sono dissolte ed evolute. Qui i distretti sono esplosi verso il mondo, molti per fortuna, o implosi verso il basso, perdendo la loro forza di imprese in rete, là dove hanno continuato come una coazione a ripetere la riproduzione del modello capannone-villetta, costo del lavoro e autosfruttamento della rete parentale. C?è sempre un cinese che lavora più di loro e c?è sempre un figlio che non vuole assumere la responsabilità dell?eredità imprenditoriale. è partendo da questa osservazione che ho brutalmente diviso il capitalismo italiano in ?imprese molla? e ?imprese trivella? in cui non è tanto e solo la dimensione che conta, ma quanto le molle sappiano fare rimbalzo dal locale al globale e ritorno dotandosi di reti lunghe di mercato, di conoscenza e di saperi e quanto le trivelle non sappiano far altro che incistarsi localmente con reti corte di mercato e di conoscenze e saperi. La dissolvenza dei distretti, la crisi della grande industria prende corpo in enormi piattaforme produttive che cercano, partendo dal territorio (che a ben vedere è la parola chiave del capitalismo italiano, se finanza è quella del capitalismo anglosassone, cogestione tra grande imprese e grandi sindacato e grandi banche quella del capitalismo renano e centralità dello Stato quella dei cugini francesi) di ridarsi senso e modelli nella globalizzazione. Nel mio lavoro di ricerca ne sto ?annusando? una dozzina, per capire realmente, al di là delle calde passioni dello scontro politico, se ce la faremo o no, se emerge uno spirito animale e vitale adeguato ai tempi del produrre per competere nella globalizzazione. Varrebbe la pena farne un racconto e una inchiesta approfondita. Qui mi limito a descriverle sommariamente. Gli undici territori 1. L?asse Torino-Ivrea L?asse Torino-Ivrea ove il ciclo della grande impresa sta cercando di ridisegnare il proprio ruolo nel ciclo dell?auto partendo da quel patrimonio contestuale fatto di saperi nella meccanica e nell?elettronica che non è svanito. Questo è dentro la crisi Fiat, è nelle reti lunghe della Pininfarina, subfornitore strategico che arriva sino in Cina, e nel polo elettronico rinato attorno al Politecnico. E poi ci sono anche le Olimpiadi e lo slow food che si celebra al Lingotto, ma poi, non prima. 2. Il Piemonte Il Piemonte del lavoro autonomo e della logistica che va da Cuneo ad Alessandria passando per le Langhe, diventati un distretto del gusto e del benessere di fama globale. Ma da solo il ciclo del Barolo e del tartufo non basta, ma è contiguo a medie imprese globali come Miroglio e Ferrero e a transnazionali come Michelin e a nuovi settori come quello della logistica che partendo dai camionisti di Tortona, storicamente legati del porto di Genova, affronta il nodo del Corridoio 5 e la fase nuova dello stesso porto genovese. 3. La città infinita C?è poi quella che io denomino la ?città infinita?, la piattaforma produttiva della pedemontana lombarda che va da Varese a Brescia ove operano transnazionali globali, medie imprese globalizzate e un pulviscolo di subfornitura di qualità, anche questo in parte a reti lunghe nel seguire gli investimenti diretti all?estero delle medie imprese lombarde. Qui ci sono milioni di posti di lavoro e se qualcuno ha nostalgia del blocco sociale dei produttori lo deve cercare qui, fabbrichetta per fabbrichetta, media impresa per media impresa. Qui nella città infinita è in costruzione la nuova Fiera di Milano che si spera, vista la dimensione dell?investimento, possa essere il luogo di rappresentazione del nuovo capitalismo italiano per milioni di utenti-clienti così come la mitica Campionaria ha accompagnato il nostro passaggio da Paese agricolo a Paese industriale. 4. La pedemontana veneta La città infinita prosegue poi collegandosi oltre la porta di Verona con la pedemontana veneta del mitico-non più mitico Nord-Est. Qui più che nel Nord Ovest è in atto una riflessione e oserei dire uno scontro tra la cultura imprenditoriale delle imprese molla, che sono poche, e la subcultura delle tante imprese trivella in difficoltà. Ma proprio perché c?è tensione e conflitto il sistema è vivo e si interroga sulle parole chiave della delocalizzazione, internazionalizzazione, esportazione e clonazione dei distretti all?Est. 5. La via emiliana Poi c?è la via emiliana allo sviluppo, ove la coesione sociale e la partecipazione avevano più che altrove prodotto il modello dell?imprenditorialità senza fratture sino a un capitalismo di comunità fatto di un mix tra distretti e multinazionali segnato oggi dal caso Parmalat. Ma è un tessuto che ha forza, che sta metabolizzando il colpo e che pur in presenza di un capitalismo in stand by ha avuto la forza, partendo proprio dalla memoria di comunità, di proporre una transizione dolce dalle municipalizzate a una multiutility regionale adeguata alla competizione sui servizi come Hera. 6. Il distretto dell?Adriatico L?intreccio tra cultura dei servizi e modello produttivo caratterizza la città adriatica ove la cultura dei ?distretti del piacere e dell?intrattenimento?, che va da Venezia sino ad Ancona e più giù, ha contaminato la figura del metalmezzadro, individuato da Giorgio Fuà nel ciclo che regge e compete nel mondo della Merloni, con figure di imprenditori creativi e comunicativi senza i quali non si capisce come sia nata Technogym a Cesena, un distretto del lusso a Morciano o fenomeni come Guzzini e Della Valle che hanno verticalizzato e innervato il pulviscolo degli scarpai o dei produttori di lampade e luci per le discoteche e gli ambienti. 7. L?Italia di mezzo Questo intreccio tra tempi lunghi dei borghi riscoperti in un tessuto di turismo culturale e storico sempre forte nel mondo, caratterizza la geocomunità dell?Italia centrale che va dalla Toscana all?Umbria arrivando, non a caso, nella città adriatica. Ha forti difficoltà a viversi in orizzontale essendo l?asse di comunicazione tutto in verticale basato su pure logiche di attraversamento, ma anche l?Italia di mezzo ha le sue medie imprese competitive e assorbe transizioni difficili di distretti come Prato che si allungano in Val d?Arno e Val Tiberina e facendo sistema. 8. Roma, il nuovo polo Per tutta l?Italia di mezzo ha svolto un ruolo forte il lento riposizionarsi di Roma da città burocratica e solo capitale a città-regione che attrae e ridà funzioni strategiche verso Sud; basta visitare l?area industriale di Pomezia e oltre, verso nord, nel baricentro dell?Italia di mezzo. La città adriatica e l?asse Tirreno-Adriatico hanno avuto in Roma un forte polo di scambio e accompagnamento. Può sembrare eresia il pensare alla Île de France e Parigi, ma il modello cui tendere e pensare è questo. 9. Napoli, la porta terziaria Così la geocomunità che ingloba Napoli, Caserta, Salerno ha in Napoli la città-regione che traina quella economia dei luoghi fatta di distretti sommersi che emergono se si dotano di reti lunghe di subfornitura o si inabissano con una contiguità pericolosa tra economia informale e illegale. Certo, questo è ancora problema ma ciò non toglie che Napoli e la sua geocomunità siano oggi più di ieri porta terziaria aperta verso il Mezzogiorno d?Italia con i suoi porti, le sue università e i suoi insediamenti produttivi che tengono e si muovono. 10. L?asse Bari-Matera E anche sull?asse Bari-Matera, passando per Melfi con l?insediamento Fiat che tiene, si delinea un continuum produttivo che ridisegna il ruolo dei suoi distretti : da quello del mobile in crisi a quello delle scarpe sportive, e anche qui si inizia a sentire l?onda lenta della città adriatica che si collega con Bari. 11. Le isole piattaforma Poi ci sono le due isole, Sardegna e Sicilia, piattaforme turistiche e agroalimentari piantate nel Mediterraneo ove ci sono casi di eccellenza come Tiscali e il polo tecnologico di Catania. Nei tempi lunghi queste due piattaforme nel Mediterraneo stanno ricollocando funzioni che vanno ben al di là delle retoriche di aree depresse. Le geocomunità all?attacco del mondo Avrei potuto essere più preciso, elencare più casi e storie di impresa che contrastino la teoria dilagante del declino. Ma il tratteggiare le geocomunità del capitalismo italiano mi pare utile in primo luogo per dire che esistono e poi per prendere atto che il localismo, quello delle cento città e dei distretti, sotto la spinta feroce e selettiva della globalizzazione che mette in crisi sia la grande impresa che il capitalismo molecolare, si sta alzando ricercando una posizione intermedia: quella di geocomunità e di piattaforme produttive in grado di attrarre i flussi della globalizzazione e in grado di andare nel mondo a fare investimenti diretti all?estero. Si sta realizzando con difficoltà quel passaggio feroce da un?economia di prossimità, che poi è nei fatti l?economia ai tempi dell?economia delle nazioni, a una economia della simultaneità in cui coniugare, partendo dalla propria storia e dal proprio territorio, il locale col globale e viceversa. Scorrendo il breve racconto che ho appena tratteggiato appare chiaro come per ogni geocomunità svolga un ruolo strategico l?esistenza o meno di una città-regione in grado di spalmare sul territorio le funzioni strategiche metropolitane date dal fare università, banche, logistica. Il ruolo di città-regione come Milano, Torino, Bologna, così come la mancanza di città-regione nel Nord- Est ancora in preda alla coazione localistica tra Verona, Vicenza e Padova, o il riposizionarsi di Ancona nella città adriatica o il ruolo forte di Roma e Napoli come poli di diffusione delle funzioni metropolitane, ci dimostrano che nella logica della simultaneità occorre andare oltre le cento città locali così come occorre accompagnare ?l?esplosione lavica? dei distretti. Ed è in questo intreccio tra diffusione delle funzioni metropolitane che si fanno città infinite e l?esplosione della crisi dei modelli produttivi che bisogna scavare per capire. Allora si vedranno le tante medie imprese, le imprese molla (vivaddio finalmente censite anche da Mediobanca) che, come sostiene Enzo Rullani, acquistano dall?esterno materiali e servizi per un importo pari all?80,7% del fatturato e, si noti bene, non è una condizione congiunturale ma una tendenza stabile che si è andata rafforzando dal 1996 ad oggi. La modernizzazione dei luoghi della speranza Ecco le nuove filiere produttive. Le medie imprese globali hanno fatto risucchio del capitalismo molecolare dei distretti. Da qui bisogna partire e per fortuna ci sono banche – e sto parlando di grandi gruppi, sempre su scala italiana ovviamente – che accompagnano queste medie imprese nella globalizzazione e supportano le filiere produttive che da queste dipendono. In questi territori le funzioni metropolitane, oltre che attraverso le banche, prendono corpo in uno sforzo di modernizzazione delle reti, dalle fiere agli aeroporti, alle multiutility fino alle reti del sapere e della conoscenza: sono queste funzioni metropolitane, spalmate sul territorio, strategiche per disegnare quelle reti lunghe che vanno dal locale al globale e che ci dicono la maturità di un territorio. Certo, molto c?è ancora da fare visto il livello di deficit di sistema da cui siamo partiti. Ma mi pare che invece di iscriversi al partito dell?Argentina, compito di un ricercatore sociale sia quello di fare racconto dei luoghi della fiducia e della speranza. Sperando poi che la politica e le istituzioni facciano il loro accompagnando la transizione che vede una composizione sociale fatta di lavoro autonomo, capitalismo personale, o di impresariato diffuso (come dicono Desiata e Bassetti). Tutto questo è la base produttiva e sociale sia delle medie imprese che di una neoborghesia fatta, si spera, di nuovi banchieri, nuovi medi imprenditori globalizzati, di ?padroni delle reti? territoriali da cui dipende l?andar per il mondo nel nostro Paese. Poi ognuno può sognare il capitalismo e la borghesia che più desidera, ma ho l?impressione che questo è il capitalismo che abbiamo e che questa è la neoborghesia che viene avanti e non so se l?uno e l?altra faranno nel tempo classe dirigente.

Aldo Bonomi


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